Ma ho visto l’Aquila

By 16 Settembre 2022Montagna

Estoul, 2 settembre 2018
La prima colazione alla Barma è profumata di tè e di torta al cioccolato. Ho con me un libro di racconti di Virginia Woolf, ma non sono riuscita a leggerne che poche righe perché la signora bionda di ieri mi ha chiesto di sedersi con me e mi sono resa conto che aveva molta voglia di chiacchierare e di fare amicizia. Per me va bene, sono felice e aperta a tutto e poi lei è davvero piacevole e mette di buon umore. Sembra avere una grande confidenza con il posto, come una cliente affezionata.

Sono partita felice per la prima camminata della mia settimana. Il tempo è un po’ così così ma R. mi ha tranquillizzata e dunque sono partita fiduciosa, con la cartina disegnata da P. – e quella ufficiale dei sentieri – nello zaino.
Il cammino per l’Arp lo conosco, perché ci sono stata un paio di settimane fa.
Dopo due ore di cammino arrivo al rifugio, saluto la ragazza che lo gestisce conosciuta ad agosto, faccio pipì e mi incammino subito: la strada è ancora lunga e non voglio interrompere il ritmo della camminata. Ho nello zaino la cartina disegnata da P., l’ho confrontata con la cartina “ufficiale” e mi sento sicura, mi pare tutto molto chiaro, a parte la durata del percorso. P. mi ha parlato di circa cinque ore, ma ho il sospetto che saranno assai di più (e lo saranno, otto ore piene!). Subito dopo il rifugio Arp arrivo al primo laghetto Valfredda, un incantevole cerchio d’acqua verde nel quale si specchia una parete di roccia che mi attira dentro il suo profumo e la sua luce.

Ad agosto avevo meditato a lungo sulle sponde di questo laghetto, assaporavo la mia settimana di “iniziazione” che sarebbe arrivata di lì a poco e lo portavo nel cuore.

Proseguo subito, per non perdere tempo e, soprattutto, per non perdere il ritmo del passo, che so essere lo strumento fondamentale per mantenere la mia resistenza fisica e non soccombere inesorabilmente. Sono molto concentrata sul respiro, sullo sguardo, sulle percezioni del vento sulla pelle e sul mio corpo che sta lavorando. Sto respirando la montagna. Sono presente alla montagna.

Questa è una sensazione che sento solo quando cammino da sola. In solitudine riesco con più facilità a prestare attenzione a una moltitudine di fattori, il respiro, il ritmo del cuore, il tatto che avverte i fili d’erba sulla pelle o il vento sul viso o sui capelli; l’odore dell’erba di alta quota che assaporo come il più squisito degli aromi, il freddo e il caldo che si avvicendano. E cerco di gestire tutti questi impulsi come se dirigessi un’orchestra. Un’orchestra in autonomia, mangiando un boccone se ho fame in salita, o bevendo un sorso d’acqua, fermandomi un istante, bene attenta a non interrompere il ritmo in una salita che va fatta tutta continuata, per non spezzare il fiato. Tutte queste sensazioni accompagnano i pensieri alla porta, per farli uscire dolcemente e far entrare, al loro posto, l’intuito, le percezioni, le emozioni che ogni singolo tratto del sentiero suscita in me.

Quando sono in compagnia non riesco, ho altre cose, belle e preziose, ma sono in un’altra dimensione, la maggior parte dell’attenzione va all’altra persona (o alle altre).

La salita accanto ai laghetti di Valfredda non dura a lungo, il secondo non lo avevo raggiunto la volta scorsa, dunque ora cominciano i passi nuovi, e le nuove scoperte.
Arrivata sulla cresta rimango incantata, come sempre, dalla magnificenza delle montagne, dall’infinito, dallo spazio immenso che mi circonda e mi abbraccia e mi fa sentire parte del tutto. È una sensazione inesprimibile, che amo profondamente e che mi rende euforica.
Il cielo non è libero, ci sono tante nuvole e non è impossibile che si metta a piovere, ma sono stata rassicurata da R. e da P. e proseguo fiduciosa, anche se il freddo comincia a farsi sentire. Non incontro quasi nessuno durante la prima parte della mia camminata, solo un paio di persone ai laghi Valfredda e una coppia di quasianziani sotto il Corno Vitello. Poi non incontrerò più nessuno per altre quattro lunghe ore.

Ma la cresta ancora mi accompagna e mi cattura, facendomi scattare foto e contemplare cime, luci, immensità.

Proseguo lassù col mondo sotto e la cartina tra le mani perché è tutta una pietraia e, se non fosse per gli omini di sassi, rischierei di perdere il sentiero.
Affamata mi fermo sotto una roccia ma ho un freddo tremendo e devo indossare i guanti per mangiare il mio panino, che butto giù in fretta per ripartire e così riscaldarmi. Lì vedo, nella pietraia, la valle nella quale devo scendere, quella indicatami da P., dove dovrei, fra un po’, raggiungere Champoluc.

Le nuvole coprono tutto, temo che si possa mettere a piovere ma ormai sono lì, e tanto vale proseguire. Ho però un momento di sconforto perché mi sento davvero sola in mezzo al nulla e mi fermo, cercando un qualche segno intorno a me che mi rassicuri.

Alzo gli occhi al cielo e poco sopra di me, nella nebbia, passa un’aquila, silenziosa, vellutata, regale. La guardo grata a bocca aperta e me la porto dentro, il più a lungo possibile.

Comincio a scendere, saltellando tra una roccia e l’altra che cancella il sentiero e fa andare a tentoni, a naso, a vista di omini e spazi meno impervi. Ma a me piace un sacco fare lo stambecco e mi affido completamente alle mie gambe che riconoscono e scelgono molto prima di me le rocce giuste e i percorsi migliori da cui passare. Quasi corro, là dove il giudizio raccomanderebbe di andare pianino, perché è una specie di danza quella che il mio corpo crea, per passare da un sasso all’altro. Mi diverto e sono piena di amore per quell’aria e quella solitudine così ricca di tesori preziosi.

Mi avventuro così nella seconda vallata dopo la cresta che scende giù ripida e incuneata tra due montagne alte e larghe, come una galleria senza tetto. La luce è grigia e verde, e raggiungo un centro di silenzio perfetto che mi spinge a fermarmi, per ascoltarlo meglio. Mai ho ascoltato un Silenzio così totale, così pieno. Nemmeno il vento si sentiva, non un uccello, non un insetto, non un fruscio d’acqua, non un suono di umanità dal fondo della valle, nulla di nulla, un Silenzio perfetto.

E di nuovo, immersa in quella dimensione che aveva un ché di ultraterreno alzo gli occhi e vedo lassù, in alto in alto, uno stambecco che mi osserva, dalla sua roccia sul culmine dello strapiombo.

Gli sorrido e lo saluto, di nuovo piena di gratitudine, per tanta bellezza.

Ormai ho preso l’abitudine a parlare ad alta voce: c’è talmente poca gente, in questo caso nessuno, che non rischio troppo di essere presa per pazza, e parlare con i monti, con il vento, con gli insetti e con gli animali mi fa stare bene, mi fa sentire viva, mi rende sicura che ci sia qualcuno che mi ascolta.

Passo da momenti di euforia a momenti di calma a momenti di tristezza e comincio a conoscere una nuova sensazione, alla quale prima non avevo mai fatto caso: una certa nostalgia di non so che cosa, una nostalgia lontana.

Arrivata a metà della pietraia vedo un altro lago in fondo, il lago segnato nella mappa di P. e dal quale dovrò decidere se scendere a destra o a sinistra.

Per il momento decido di fermarmi su una roccia al centro tra le due pareti e stare lì, in ascolto.

Quello è stato un momento molto importante, del quale porto ancora intenso il ricordo nel cuore. È stato come se in quell’istante avessi perfettamente chiaro che lì era la mia casa. Non importava quanto tempo ci sarebbe voluto e i passi che avrei dovuto fare per stabilirmi lì: quella era la mia Casa, il luogo dove qualcosa di me già viveva, da un tempo lontano e sconosciuto. Questa certezza mi ha provocato un senso d’impazienza e di scoraggiamento per non poter realizzare subito ciò che sentivo con tanta potenza ma, allo stesso tempo, un rassicurante segnale che la strada giusta mi si era aperta davanti e dovevo solo percorrerla, senza temerne troppo le fatiche e le difficoltà, con passione, determinazione e fiducia.

Il mio cammino prosegue verso il lago che comincia a nascondersi nella nebbia. Mi si presenta davanti trapuntato di eliofiori e quasi del tutto coperto dalla nebbia. Devo scegliere da che parte andare, se nel sentiero che scende a destra o quello che prende la discesa di sinistra: entrambi portano a Champoluc e dovrebbero la stessa durata. Scelgo quello meno coperto dalla nebbia, perché non si vede assolutamente nulla a parte un grigio verde e scuro.

Velocizzo il passo, nonostante cominci a essere stanca, perché il tempo si volge al peggio. Una marmotta cicciona e marroncina fa da sentinella al sentiero verso Macognaz su una pietrona e la sua presenza calma e placida mi rassicura. Comincio dunque a scendere per il sentiero erboso, le pietre ormai lasciate alle spalle, nella nebbia che va e viene. Ma la visibilità è abbastanza buona.

Il sentiero però pare non finire più. La mia resistenza fisica si sta affievolendo e comincio a sentire dolore alle dita di un piede. Ma continuo senza mai fermarmi, affrettandomi, perché le nuvole sono sempre più nere e non incontro più nessuno da ore. Ormai non riesco nemmeno più a godermi il paesaggio e tutte le sensazioni qualche attimo prima così presenti. Penso solo a resistere e ad arrivare prima possibile a valle.

Ma la valle è ancora lontana. Percorro un sentiero in discesa che attraversa vecchi alpeggi ormai abbandonati lievemente inquietanti, nonostante sia sempre rimasta incantata e affascinata da quelle tracce di vita antica che profuma di fuoco e di mucca. Mi fermo solo per fare pipì e per massaggiarmi le dita del piede destro, sempre più doloranti. Fa freddo, sono sola, sta per piovere. Comincio a preoccuparmi e a pensare di essere stata imprudente oppure che P. e R. mi abbiano cacciata in un bel pasticcio, senza nemmeno conoscermi. Mi avevano consigliato una camminata così lunga perché avevano fiducia (troppa?) o perché volevano mettermi alla prova? Comincio ad arrabbiarmi.

Il cammino non finisce mai. Dopo una curva spunta a sinistra una vallata, probabilmente quella che vedevo dalla cresta.

Devo essere arrivata al congiungimento tra le due valli.

Mi sento un pochino più tranquilla e torno a fermarmi a osservare la bellezza immensa e maestosa di alcuni larici senza dubbio secolari, per la loro dimensione enorme.

Rimango davanti a loro in contemplazione adorante per un po’ e chiedo loro aiuto, conforto e consiglio.

Il sentiero però è tutt’altro che finito, anche se questa volta ho una buona visibilità: vedo che sotto di me si sviluppano lunghi tornanti che arrivavano a un alpeggio e, poco dopo, a una strada sterrata che pare condurre alla fine del mio cammino. Vedere i tornanti però mi fa venire lo sgomento perché sono sfinita e mi sembrano davvero troppi. Decido dunque che ne ho abbastanza e che li taglierò tutti in verticale, infischiandomene del pendio (non particolarmente ripido) e dell’erba alta. E così faccio, divertendomi pure, perché in realtà attraverso una sorta di palude melmosa di letame, che mi avviluppa felicemente. In preda a un’euforia un po’ folle arrivo finalmente alla strada che si immerge dentro a un bosco. Non ce la faccio più.

Sono 7 ore e mezzo che cammino e non ho più forze. Eppure devo proseguire.

Nel bosco, dove l’aria è decisamente più dolce e profumata rispetto alla letamaia da cui sono appena emersa, decido di aver bisogno di compagnia, perché da 5 ore non vedo nessuno. E cominciato a cantare, a cantare a squarciagola Over The Rainbow, nella versione di Barbara Streisand. Ah! Una meraviglia! Chissà cosa penseranno gli scoiattoli vedendo una tipa con i capelli arruffati, uno zaino più grosso di lei, che cammina su due scarponi intrisi di letame, barcollando per la stanchezza e cantando a squarciagola.

Non ho più vergogna di nulla: e chi può vedermi? Sono nel deserto!
Finalmente arrivo a un agglomerato di case. L’effetto è quello di intravedere un’oasi nel deserto del Sahara. La felicità mi prende mi affretto verso quelle case. Naturalmente ora comincia a piovere e allora, sempre cantando, comincio a ridere (che altro posso fare?) senza nemmeno darmi la pena di tirare su il cappuccio della giacca, tanto ormai sono in un tale stato che una bella doccia non può che giovarmi.

Finalmente vedo due esseri umani. Due persone che mi osservano dall’alto di un terrazzo, probabilmente da un bel pezzo, visibilmente divertite.

Ma. Ma non sono ancora arrivata. Dalle palette gialle risulta che mi trovo a Mascognaz e che devo scendere ancora per arrivare a Champoluc. La disperazione mi prende solo per un istante. Scrivo a R. che sto per arrivare a Champoluc, dove lui mi verrà a prendere, come da accordi, e questo contatto mi infonde quel po’ di sicurezza che qualcuno mi recupererà, se dovessi stramazzare al suolo.

Mi godo pochissimo Mascognaz, perché il mio unico interesse, in questo momento, è arrivare viva giù a Champoluc, e comincio a scendere di nuovo per la mulattiera, anch’essa molto bella ma non più al mio sguardo e alle mie percezioni totalmente concentrate come sono sulla sopravvivenza.

Arrivata a Champoluc mi sono scaravento su uno scalino e lì, stremata e sotto la pioggia a dirotto, ho aspettato R. mangiando una mela.

Sei stanca? Mi chiede una volta salita in macchina. Si. Ma ho visto un’aquila.

In macchina rispondo a monosillabi alle domande di lui e della sua ragazza, guardo fuori e vedo il silenzio, l’aquila, il verde blu grigio degli alberi, e una doccia bollente.

(p.s. questa camminata mi è costata un’unghia del piede destro)

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